Ti aspetto e ti parlo piano

Vaneggiamenti di un padre in attesa

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Season 2 Episode 9 – Il Vecchio ed il Bambino

Ciao Baby Nicolo,

Pensi che tuo babbo sia vecchio?

Ma lo sai che ho compiuto 40 anni solo qualche giorno fa? Dici che riuscirò a tenerti in braccio quando superi i 20 kili? E’ un problema che si può risolvere dandoti poco da mangiare fino a che non diventi adolescente, ne parlerò con Mamma, anche se immagino già lo sguardo assassino che mi tirerà.

Comunque tuo babbo, pur entrando nel club dei quarantenni, si sente sempre più bambino. Leggo fumetti Marvel e Bonelli, adoro i cartoni, mi metto a giocare coi soldatini non appena nessuno mi vede, mi vesto con lo stesso gusto di un undicenne, e mi prendo cura di me esattamente come lo facevo in prima media. Non ricordo per esempio l’ultima volta son stato dal barbiere… basti pensare che ora hanno cambiato nome e si fanno chiamare Hair Stylist.

Eppure non mi son mai sentito tanto vero come in questi ultimi mesi. Sono io, mi guardo allo specchio e mi riconosco, mi ascolto parlare e mi piace quello che sento.

Parlo con l’ingenua sicurezza di un bambino, non pesando le parole come un quarantenne. Io seguo l’istinto, è l’unica cosa di cui ho imparato a fidarmi, e la gente magari pensa sia particolarmente saggio ed intelligente. Pensa che l’altro giorno sono stato invitato a parlare di Social Media ad un evento davanti a 200 addetti ai lavori nella Beauty Industry (centri estetici, SPA, centri benessere)… ed ho esordito proclamando “Signori, ho 40 anni e non son mai entrato in un centro estetico!”… pura follia! Pensavo mi picchiassero… Poi ho parlato per 40 minuti e non sarei mai sceso da quel palco.

Il fatto è che ho scoperto che ad essere veri ed onesti nel dire le cose, può non essere offensivo. Certo, è fondamentale confidare nell’intelligenza delle persone che hai davanti, e talvolta ci si resta delusi, ma alla fine penso che a 40 anni ho finalmente imparato a collimare quello che sono con quello che faccio. Ma non è qualcosa di razionale, è il mio istinto che sta imparando a modularsi meglio, dopo aver imparato tanto.

E’ un percorso lungo Nico, non aver fretta, e pensa che nei prossimi quarantanni imparerai e conoscerai cose e persone incredibili, che ti cambieranno, ti modelleranno col loro esempio, positivo o negativo. Quando penso agli esempi che mi hanno insegnato di più nella vita, penso ad esempi negativi, persone che mi hanno fatto capire come non volevo essere! Si parte e si impara pensando al “perchè no?”… si prova, a volte si vince, spesso si perde, ma si impara sempre. E’ infatti la vita che ti insegna nei modi più inaspettati, ed oggi ho capito che anche ciò che sembra un dramma oggi, domani ti regalerà una lezione importante.

La vita è stupenda Nicolò, segui il tuo istinto e non smettere mai di imparare. Amala e ti amerà.

Quindi il messaggio è “ama e fai ciò che credi” (Citazione di Sant’Agostino). Noi cercheremo di seguirti, di insegnarti col nostro esempio, ma necessariamente ci scontreremo con la tua voglia di scoprire, con l’incoscenza di un bimbo, con la vivacità del tuo cuore. Perchè anche noi abbiamo tanto da imparare in questo percorso; da una parte la preoccupazione di avere la vita di una creaturina innocente nelle mani, dall’altra la paura che qualcosa possa andare storto. Ci scontreremo Nico, è inevitabile, ma porta pazienza coi tuoi vecchi, anche quando pensi di aver ragione. Parlaci e spiegaci, cercheremo di capire quello che la tua vita che pulsa deve insegnarci.

Sappi che saremo fieri di ogni tuo passo, che sia un fallimento od un successo, ma ascolta ciò che la vita ti insegna; fai in modo che il tuo istinto impari dagli errori.

La vita è la miglior maestra che abbia mai avuto, perchè ti concede spesso almeno un’altra occasione se continui a tener la testa alta. Ascolta la tua vita quindi, sia che abbia la voce di tua madre, o di una maestra sclerotica in menopausa o di un gruppo Post-Punk tedesco, ma fai tuo ogni insegnamento, mettilo da parte perchè ti servirà in futuro. Vivi di domande, non di dogmi, perchè sono le domande che ci spingono a crescere; chi vive di risposte (magari di quelle degli altri) vive a metà.

Noi siamo il prodotto di ciò che viviamo e di come lo viviamo; vivi tutto con amore, verso te stesso innanzitutto.

Domani è un giorno importante! Abbiamo il pubblico delle grandi occasioni già in viaggio per assistere all’Ecografia Morfologica del quinto mese!!! Domani ti vedremo ancora, e meglio. Scopriremo tante nuove cose di te e ci si fermerà il fiato ancora una volta, come solo tu sai farci fare.

Season 2 Episode 5 – Il chirichetto incontinente

Nicolo, lascia che ti racconti ancora un pò di Robin:

Ci sono storie che meglio di altre spiegano il carattere delle persone. Per i bambini, al di la’ della storia in sè, cio’ che colpisce è pensare a come quella stessa storia avrebbe potuto essere vissuta da un adulto, ovvero da una persona con molta meno liberta’ e ben piu’ condizionamenti mentali di un bimbo.

Come ogni anno la Scuola Elementare delle Maestre Luigine dove il nostro eroe veniva trascinato ogni mattina dalla madre, svolgeva la Messa solenne di meta’ anno.

Fu cosi che ai primi di Febbraio tutta la scolaresca in alta uniforme (grambiulino rigorosamente blu con colletto bianco per bimbi, rosa od azzurro chiaro per le bimbe) insieme alle maestre e parenti venivano dragati in nella chiesa della scuola per la sacra e tradizionale funzione ecclesiastica.

Le Maestre Luigine erano un ordine di suore votate all’educazione dei bimbi da centinaia di anni e prendevano le loro tradizioni molto seriamente. Con google alla mano potrai un giorno leggere che nel 1779 un prete Domenicano e professore Universitario decise di aiutare una domestica a fondare il conservatorio delle Luigine « con lo scopo di istruire fanciulle e dare loro la possibilita’ di affrancarsi dalla poverta’ tramite la crescita sociale ». Vabbe’, ma c’era qualcosa di speciale nelle Luigine di duecento anni dopo, si erano evolute. Si perche’ le Luigine non erano piu’ suore normali, ma dotate di super-poteri.

Tanto per iniziare avevano un uniforme spettacolare; portavano un mantellone nero con copricapo squadrato molto simile a quello di Batman da cui uno spesso pizzo bianco scendeva sulla fronte. Scendendo, al collo avevano degli ingombranti collaroni inamidati impreziositi di pizzo spesso e tagliente; ed infine si muovevano rapidissime con i loro spessi scarponcini/stivaletti neri con fibbie argentate.

Pure Batman era terrorizzato da loro, si diceva in giro che le Luigine fossero le ultime suore ninja rimaste e che avessero scoperto il siero di lunga vita. Sicuro incutevano un certo timore soprattutto perche erano tutte ultracentenarie con una vitalita’ fuori dal comune e occhietti vispi e sempre attenti.

D’altronde gestire centinaia di bimbi di asilo ed elementari richiedeva super-poteri, se poi pensate che loro erano a malapena una mezza dozzina, il dono dell’obiquità era fondamentale. Qualsiasi cosa facessi in qualsiasi area della scuola, c’era una suora Luigina che spuntava dal nulla, seguita da un’acre odore di zolfo ed una nuvoletta bianca, ti cazziava serissima per poi svanire arrotando il suo mantello nero.

Ma torniamo alla Messa solenne… « C’e’ qualche d’uno di voi bambini che ha gia fatto il chirichetto ? » chiese maestra Marietta una delle decane dell’ordine. Anni dopo ad una domanda del genere i presenti avrebbero preso a fissare i muri, cercando di mimetizzarsi e non attirare lo sguardo di colui che aveva posto il quesito, ma quelli erano altri tempi, tempi in cui un bimbo voleva alzare la mano entusiasta e gridare « Io !! Io… lo faccio io ! ». D’altronde non capitava spesso che ti chiedessero se sapevi fare qualcosa, di solito ti dicevano di farla e basta. Fu cosi che dopo una lotta furibonda il nostro eroe la spunto’ e venne posto, insieme ad un altro bimbo, al lato destro dell’altare di fianco al prete. Aveva nove anni e quello era il suo primo momento di celebrita’, il chirichetto col suo sorriso soddisfatto fissava gli amichetti scartati dalla selezione con sguardo fiero, « Na na nana na… Hanno preso me ! Voi state li in platea con gli altri che qui ci sono io… » pensava soddisfatto.

Arrivo’ Don Erasmo, che chiese frettolosamente « Ma lo sapete che cosa devete fare ? ». Il bimbo all’altro lato rispose convinto « Si ! ». Il prete giro’ lo sguardo verso Robin, lui degluti’ e disse « quello che… mi dice lei ? ». Era una di quelle frasi che escono inizialmente con impeto di sicurezza, come se non ci fosse un solo dubbio sulla faccia della terra, poi man mano che le parole escono il tono si affievolisce, si perde spinta e si gira all’ultimo istante l’accento all’interrogativo… per poi chiudere con miglior sorriso che si riesce a tirar fuori… nessuno si arrabbia veramente con un bimbo sorridente. Insomma, Robin pensava che il piu’ fosse fatto, insomma essere sul palco fissato da tutti era quello che voleva, mica pensava che avrebbe anche dovuto fare qualcosa… uffa!

Vabbe’, penso’ che anni di Messe domenicali sarebbero finalmente servite, bastava solo ricordarsi le manovre e le tempistiche, fissando magari l’altro chirichetto che sembrava sapere il fatto suo. Cerco’ di tranquillizzarsi mentre Don Erasmo si infilava il bavagliolo di pizzo, il lungo “foulard” di seta ed il mantellone rosso, ma inizio’ a sentirsi a disagio.

La platea era disposta davanti, rumorosa e mutevole; non appena Don Erasmo rintocco’ la sua campanella gli sembro che tutta quella massa si fosse composta ed azzittita come un regimento sull’attenti. Si senti’ fissato su quell’altare, puntato da centinaia di sguardi e la sensazione non gli piaque neanche un pò. Avrebbe voluto andare via da quel palco, ma ne era ormai intrappolato e per l’intera durata della celebrazione, sarebbe dovuto rimanere in piedi davanti a tutti aspettando un cenno per far qualcosa che non riusciva assolutamente a ricordare cosa fosse.

Tra se e se pensava « Dunque, ma cosa fanno i chirichetti di solito ? Allora, innanzi tutto sono vestiti con la tunica bianca e sono riconoscibilissimi… a me non mi hanno dato mica niente da mettermi, anzi mi hanno pure tolto il grambiulino…. Vabbe’… poi… gli passano della roba al prete, ma cosa ?… ah, si il vino ! si vabbe ‘ ma mi sa che quello e ‘ alla fine… che di solito poi ci si fa il segno della croce e si esce a giocare… poooi… c’e’ il punto in cui ci si da la mano… e devo dare la mano al prete, si, sicuro, son quassu’, almeno la mano gliela dovro’ dare no ?!… bene, pooooi… mica leggono i chirichetti no ?? Oh, io mica voglio leggere quassu’ che mi ascoltano tutti… no no, faccio leggere all’altro che lui e’ bravo… poooi… ah, si devo far finta di cantare… che quello lo so fare, muovo la bocca eh ! … e poi ? Mah ! piu o meno e’ tutto li no ? ». Si giro’ verso l’altro chirichetto facendo un cenno con la testa per richiamare l’attenzione, e senza pronunciare suono col labiale gli chiese « Che bisogna fare ? ».

L’altro bimbo con sguardo serio, quasi preoccupato rispose allo stesso modo « Booh ! Mai fatto il chirichetto io… ». Il livello di sudorazione aumento’ a dismisura, la tensione gli prese la pancia ed in pochi minuti si sentii un fortissimo impulso al basso ventre « Noooo, non ci credo ! » penso’ « Mi son scordato di andare in bagno.. » .

Penso’ che poteva trattenersi, ma dopo qualche minuto, con il solito cenno della testa ed il movimento di labiale disse all’altro chirichetto « Devo andare in bagno, mi scappa… » La maestra Luigina in piedi dall’altro lato dell’altare gli lancio’ uno dei suoi sguardi ninja… senti’ il sibilo del « Shhhhhh, silenzio ! » che lo investi’ di colpo e si raddrizzo’ composto come un soldatino di piombo.

Per l’intero primo atto sino al « Credo » riuscì a resistere facendo impercettibili passettini sul posto e premendosi il basso ventre con le mani infilate in tasca; pensò di esser persino riuscito a tenere una postura composta ed un sorrisino da ebete perfetto per un chirichetto. Non si girò mai verso il prete, per paura che gli intimasse con lo sguardo di fare qualcosa, lo ignorò completamente mantenendo la sua posizione sulla mattonella marmorea… ad un certo punto si accorse che i fedeli avevano iniziato a stringersi la mano non appena Don Erasmo disse « scambiamoci un segno di pace »… il chirichetto dalla parte opposta, dopo aver stretto la mano al prete, si avvicinò tendendogli la mano…Robin scosse la testa intimandogli di andarsene, ma il bimbo squadrò gli occhi in segno di rimprovero e fece cenno col capo verso a Don Erasmo che ora era in piedi in attesa dietro al busto teso di Robin. Il bimbo ormai in posizione fetale, con rapidità fulminea sfilò la mano di tasca si girò e gliela strinse, si rigirò dando un cinque sulla mano del collega chirichetto e riassunse la posizione semi-fetale di partenza, con tanto di mani in tasca a premere sulla vescica. Tra sè e sè si complimentò per la coordinazione ed il minimo dispendio di energia anche se la vescica risvegliata da quella rapida torsione del bacino sembrava andargli a fuoco. Pensò che mancassero ancora una decina di minuti, tra i quali la Comunione in cui forse approfittando della confusione e del minuto di preghiera avrebbe potuto sgattaiolare in sagrestia alla ricerca di una tazza od una pianta che fosse.

La preparazione dell’Eucarestia procedeva ad una lentezza sconvolgente, Don Erasmo sfrusciava con un pannetto intarlato a punto e croce il calice d’orato come fosse vivo; dopo aver versato il vin santo e aver bevuto il cicchetto di sangue di Dio, si prese pure la briga di risciacquarlo ed asciugarlo col pannetto. Giusto per rallentare le operazioni oltre misura si mise ad inchinarsi lentamente dopo ogni singolo gesto. Robin passò all’ultima linea di difesa contro la vescica pulsante ed incrociò le gambe, aumentò l’intensità dei micro saltelli e iniziò una preghiera, guadagnadosi un altro paio di minuti. La processione per la Comunione fù maledettamente rallentata da un paio di vecchiette che trascinandosi coi loro bastoni dai banchi impiegarono almeno dieci minuti per ritornare al punto di partenza. Quei dieci minuti furono fatali, il viso di Robin teso ed arrossato si squagliò in un sorriso sereno ed angelico di karmica liberazione.

Il velluto a coste dei pantaloni beidge si dipinse di una linea scura all’interno coscia ed una lieve pozzanghera macchiò il prezioso tappeto intarsiato sotto all’altare. Robin ebbe appena la prontezza di spostarsi di lato dietro alla colonna, la pozzanghera lo seguì fedele.

Dopo gli ultimi brividi di pioggia angelica Robin era ora pronto ad adempiere al suo ruolo di chirichetto e si rivolse con un sorriso aperto a ventaglio verso Don Erasmo come per dire… « cosa serve ? ». Don Erasmo lo fissò serio proprio mentre pronunciava « La messa è finita, andate in pace ».

Robin pensò fosse rivolto a lui e corse fuori dalla chiesa a saltare nelle pozzanghere di pioggia come un indemoniato. L’azione fu talmente fulminea che in pochi mai capirono il sacrilegio che avvenne quel giorno in chiesa.

Robin stesso non pensò ci fosse nulla di male, lui aveva trattenuto quanto poteva e in cuor suo era stata colpa delle vecchiette. Restò fuori dalla chiesa a giocare con gli amici saltando nelle pozzanghere come un pulcino sorridente e felice, come se nulla fosse successo.

In animo suo la tragedia si sarebbe consumata solo una mezzora dopo quando la Zia Felicita portò Robin e la cugina a casa per pranzo. Resasi conto dell’accaduto lo costrinse a mettersi un paio delle sue mutande con due nodi ai fianchi.

Quella di aver messo addosso un paio di mutande da donna fu per lui un umiliazione inaccettabile.

Season 2 Episode 4 – La trappola e l’abbraccio

Ciao Nicolo, fammi raccontare ancora un pò di Robin:

Di momenti particolari nella sua memoria selettiva ce n’erano, alcuni in qualche modo anche brutti, ma lui li aveva impacchettati col suo fiocco sorridente, e quando li raccontava rideva a crepapelle.

Come quel pomeriggio al Parco Ducale, dopo la sua Prima Comunione. Il nonno Walter gli aveva regalato un bellissimo orologio al quarzo Casio, con la sua montatura argentata e spessa che gli adornava il polso sottile come un bracciolo gonfiabile del mare. Lo adorava il suo primo orologio, e finalmente avrebbe saputo che ora era in qualsiasi momento della giornata (credeva che preoccuparsi dell’ora fosse il segno che uno e’ grande).

Spesso alla domenica pomeriggio lo portavano al Parco Ducale, era il suo regno. La madre lo accompagnava con la sorella dalla Signora Alice che affittava i « grilli » (strani tricicli a pedale per bambini, col volante !). Tempo dieci minuti e lo vedevi scorrazzare velocissimo inseguito da una fila di altri bambini stremati che avrebbero seguito il loro nuovo boss (Robin) in capo al mondo.

La Signora Ailce era una iena, teneva in un diario l’esatto orario di consegna del mezzo, e la descrizione del bimbo alla guida. Quando scadeva il tempo la vedevi rincorrere i bambinetti come una furia, placcarli e strappargli da sotto il sedere il triciclo incurante delle loro lacrime disperate. Per quello era normale per i bimbi non transitare dalle sue parti allo scadere dell’ora di « grillo », e il nuovo orologio del Nonno Walter col cronometro era perfetto per sapere esattamente dove e quando nascondersi al momento opportuno.

Un’altra tappa forzata del suo girovagare in « grillo » per il parco era la macchinetta dei pop-corn. Ogni persona normale metteva 50 Lire, infilava il sacchettino di carta e la macchinetta te lo riempiva, fin troppo facile vero ? Ma la macchinetta colmava quel sacchetto a dismisura, con pop-corn che strabordando finivano inesorabilmente nel cassettino ad imbuto posto appena sotto. Per anni lui passava, infilava velocemente il braccino sottile nell’imbuto come fosse la mano della verita’ e ne sfilava manciate di pop-corn che distribuiva agli amichetti affamati e sudati da quelle epiche cavalcate in « grillo ».

Era rapidissimo ed inesorabilmente riusciva a far perdere le proprie tracce prima che il gestore del Bar lo raggiungesse gesticolando ed imprecando. Ogni domenica la stessa scena.

Beh ! Quel pomeriggio le cose andarono diversamente. Come sempre infilo’ il braccio nel cassettino ed agguanto’ la sua manciata di pop-corn. Fece per estrarre la mano ma si senti’ incastrato ; penso’ immediatamente ad una vile trappola del barista. Inizio’ a tirare con tutta la forza che aveva ma il braccio non voleva saperne di uscire. Il nuovo Casio del nonno con il suo spessore metallico era troppo grande per quel piccolo buchetto, ed una volta entrato non poteva uscire. Anche gli amichetti provarono a tirare ma il braccio era incastrato ben oltre le loro forze. Girandosi, vide il solito barista avvicinarsi, questa volta molto piu’ lentamente del solito, la carogna sapeva che l’aveva in trappola. Lui comincio’ a chiedere aiuto sottovoce, pensando di attirare l’attenzione di qualcuno che lo poteva liberare prima dell’arrivo del barista incazzato. Disperatamente cercava comunque di non attirare troppo l’attenzione su di se’.

In pochi minuti si formo’ un capannello di persone che provarono in ogni modo di liberarlo senza pero’ successo. Robin piangeva iniziando a pensare all’amputazione come unica soluzione, proprio come suggerito dal crudele barista con un bel sorriso soddisfatto stampato in faccia. Mezz’ora dopo arrivo’ la Signora Alice, che pretendeva riavere il suo « grillo » dato che Robin aveva sforato ben oltre l’ora pagata.

Robin era terrorizzato dall’idea di vedere la Lella ed Adriano avvicinarsi a testa bassa, lentamente, sotto gli sguardi severi dei presenti che chiaramente fissavano gli sciagurati genitori di quel piccolo furfantello. Pregava i Santi che i genitori non si accorgessero di cio’ che era accaduto.

Pochi minuti dopo arrivo’ a sirene spiegate la camionetta dei vigili del fuoco, la situazione stava degenerando e in pochi minuti decine di persone si avvicinarono al capannello iniziale per capire quale sciagura era successa alla macchinetta dei pop-corn. Robin fissava il pavimento e singhiozzava. Ma della Lella ed di Adriano nessuna traccia (forse si erano nascosti dietro un pioppo dalla vergogna).

Ci vollero quaranta minuti ai pompieri per sventrare la macchinetta. Nell’istante esatto che la diabolica macchinetta sputo’ fuori il suo Casio con ancora attaccato il suo braccino, Robin inizio’ a correre come un ossesso e si dileguo’ tra la fitta boscaglia dietro il bar, come una volpe liberata dalla tagliola. Rimase accucciato dietro una siepe per una decina di minuti prima di ritornare alla panchina dove aveva lasciato i genitori. La Lella era in profonda conversazione con una signora con un passeggino, Adriano stava avidamente stringendo all’orecchio la radiolina di « Tutto il calcio minuto per minuto » passeggiando nervosamente nei pressi. Robin si ripresento’ con un bel sorriso, corse ad abbracciare forte la mamma e chiese insistentemente di andare a casa. La Lella saluto’ la signora dal passeggino e si incamminarono verso l’uscita con Robin che tirava per un braccio il padre tutto preso dalle partite.

Quello era uno dei momenti nella sua collezione di ricordi. Ma il vero momento in cui fermo’ il tempo, fu l’istante esatto in cui uscirono dal parco, alla fine di una tragedia sfiorata, senza punizione e con il suo braccino attaccato al corpo. In quel momento il sorriso della madre gli sembro’ un dono divino. In quel momento era felice.

Per mesi alla Domenica Robin si rifiuto’ di andare in quel parco, accappando scuse di ogni genere. Ad oggi non credo abbiano un’idea di cio’ che successe quel giorno.

Season 2 Episode 3 – Ti presento Robin

Robin si spiega con una storia che parla di un bambino splendido, bellissimo e sempre sorridente. Un bimbo con una leggerezza d’animo soprendente e l’innata capacità di far sorridere chi lo circondasse. Cominciò a camminare il giorno del suo primo compleanno, davanti ad uno stuolo di parenti immobilizzati a bocca aperta. Era il 17 Ottobre 1971. Con la sua camicia bianca, corpettino in pandane con i pantaloncini in velluto nero ed un cravattino a farfalla impeccabile. Era seduto sul divano verde del salotto, gongolandosi nelle attenzioni di zie procaci e premurose, che se lo passavano di braccio in braccio, strizzandogli le guanciotte pronunciate ed il doppio mento da criceto. Tra le mille cose che distraevano la sua attenzione c’era evidentemente la macchina fotografica del padre, argentea e luccicante, col cordino penzolante. Fu nell’istante esatto che il padre Adriano prese la macchina fotografica per ritrarlo nel suo splendore che senza esitazioni riuscì a divincolarsi dalle grinfie delle zie, si calò dal divano lasciandosi scivolare sulla schiena come se lo avesse fatto gia migliaia di volte. Una volta che i due piedini toccarono il pavimento si alzò sulle ginocchia, staccò la presa della mano della zia più arcigna e camminò verso il padre, che rimasto a bocca spalancata dalla sorpresa si dimenticò di fare la foto. « Questo bimbo è chiaramente un esibizionista » disse una pro zia della bassa padana. Aveva ragione !

Crescere era stato facile, piu’ avanti negli anni avrebbe pensato « fin troppo facile ». Non aveva mai chiesto molto e tutto l’indispensabile o l’aveva o era in grado di crearselo.

Se gli chiedevi cosa sarebbe voluto diventare da grande, senza un secondo di esitazione ti avrebbe risposto « Robin » l’aiutante di Batman !!

Robin era il suo vero idolo, rappresentava il ragazzino normale, senza poteri straordinari ma con una voglia disperata di aiutare a salvare il mondo che lo fiondava nel mezzo di lotte tra grandi criminali ed il celebrato padrino Batman. Erano certo piu’ le volte che metteva il proprio padrino nei casini che l’effettivo contributo nella lotta contro il male, ma nessuno glie ne voleva male viste le nobili intenzioni.

Sin da piccolo era stato un « realista », presto aveva capito che desiderare di essere un supereroe era un’inutile perdita di tempo. Non sentiva di avere le doti del leader e soprattutto aveva troppa voglia di giocare per sorbirsi le preoccupazioni che il ruolo di Batman comportava. Era molto meglio mettersi dietro e buttarsi nella lotta all’occorrenza, e magari interromperla per la merenda (un lusso che Batman non si poteva permettere).

Era cresciuto protetto e coccolato da una madre premurosa, dannatamente energetica e piena di risorse. La spettacolarita’ della madre era nella semplicita’ dei suoi gesti, nella sua capacita’ di rendere unica ed preziosa una mousse al cioccolato, cosi come una camicia a fiori cucita con le sue mani od un paio di pantaloni dismessi dalla sorella piu’ grande. Quell’ingegno contadino di fare di necessita’ virtu’ che non aveva mai fatto mancare nulla e reso una famiglia basso borghese l’invidia del vicinato.

Il Piccolo Robin aveva imparato dal suo esempio a non chiedere od aspettarsi nulla fuori dalla propria portata, crescendo senza vizi o tensioni, preferendo la propria unicita’ ad averi materiali di cui vantarsi ai giardinetti. Quello stesso ingegno della madre unito alla sua fantasia rendevano la sua bicicletta gialla, passatagli dalla sorella, unica e quasi mitologica, un paio di mollette, del nastro adesivo ed il suo sorriso di soddisfazione nel guidarla bastavano per generare l’invidia degli amici.

Come la madre, Robin aveva una fantasia spaventosa, riusciva a rendere interessanti ed uniche le cose che lo circondavano qualunque esse siano e non aveva paura a rendere partecipi delle sue scoperte chiunque fosse nei paraggi sia esso conoscente od un perfetto estraneo. La madre aveva un aurea limpida ed un sorriso spontaneo e vero, che lo accompagnava nelle sue giornate anche quando non gli era intorno, un aurea rassicurante e protettiva che lo fece vivere e crescere senza paure alcune. Anni dopo si rese conto di quanto prezioso fosse quel dono.

Le attenzioni della Lella ma soprattutto le storie del nonno materno lo avevano profondamente segnato sin dall’infanzia. Uno dei primi suoi ricordi era il nonno materno che lo svegliava un pomeriggio al mare. Doveva essere stata una visita inaspettata ma tant’e’ che alla sua vista, che quel giorno capii di avere un cuore capace di pulsazioni da togliere il fiato, e capii cosa fosse un’emozione. Quell’uomo seduto sul ciglio del letto accarezzando dolcemente sulla fronte Robin che, appena svegliato, ancora si strofinava gli occhi, aveva cominciato a raccontare una delle sue storie ; ed il tempo si era fermato. Robin aveva poco piu’ di quattro anni e quel giorno capii che il tempo si poteva veramente fermare.

Fermare il tempo: Lo avrebbe fermato molte volte in quegli anni, era la sua specialita’.

In ogni momento di vera felicita’ si fermava immobile, chiudeva gli occhietti e diceva « vorrei che il tempo si fermasse ora ! »… era come impacchettare quell’istante esatto con le sue sensazioni, coi suoi profumi, col sorriso del suo cuoricino ben impresso. Tempo dopo quando la tristezza lo attanagliava, chiudeva gli occhi e si rifugiava in quegli stessi momenti, quelle erano le sue uniche memorie, quelli erano i soli momenti che si portava dentro, istanti scelti, impacchettati col fiocco ; tutto il resto se lo dimenticava. Quella era la sua piu’ grande dote, lui non si confrontava con momenti del passato, lui non aveva una memoria e quindi esperienze negative che lo rincorrevano col forcone in mano. Ciò che aveva nel cuore era semplicemente una ben selezionata raccolta di momenti « The best of », come le cassette di Richard Claiderman del padre, o quelle di Fausto Papetti con le sue donnine a seno nudo in copertina.

Molti anni dopo, ripensando alla sua infanzia si rese conto di come non ci fosse un solo ricordo triste, un momento difficile, un ombra che i portasse dentro di quei primi 14 anni della sua vita. Non che non ce ne fossero, tutt’altro; se li era semplicemente dimenticati.

Lui ricordava solo i sorrisi di quelle polaroid.

Da una parte la serenita’ e la protezione dell’ambiente familiare, di una citta’ piccola e calma, dall’altra il suo spirito sereno ed un modo particolare di godere delle piccole cose, semplici e facili.

Ciao Nicolò, io sono Robin!

Season 2 Episode 2 – Ti presento “Braccino”!

Ciao Nicolo, oggi volevo presentarti Braccino, qualcuno con cui avrai molto a che fare nei prossimi anni. Noi siamo una folla e Braccino è una parte di me, l’adolescente!

Allora, ancora non sai cosa sia l’adolescenza… ci arriverai e la dovrai affrontare come abbiam fatto tutti… ti preannuncio che non è un periodo facile, ne per te, ne tantomeno lo sarà per me e Mamy. Ma ti vorrei raccontare come l’ha affrontata uno dei miei eroi, Braccino!

«L’adolescenza gli era scesa addosso improvvisa e spietata come un’ombra; ricordava anche quando, il 12 Dicembre 1982.

« Santa Lucia non esiste ! Sono i tuoi genitori che comprano i regali il giorno prima e mentre dormi li mettono sul tavolo e ti svegliano ». Questo glielo disse Giuseppe Barilla, suo compagno di classe, ridendo di lui e della sua ingenuità.

Giuseppe non gli era mai piaciuto. Un giorno, a scuola, rincorrendo a testa bassa il selciato lasciato nell’erba dalla motofalciatrice del bidello si era scontrato frontalmente con Giuseppe che arrivava contromano. Giuseppe era più alto e si era trovato al pronto soccorso con un occhio tumefatto. Non l’aveva fatto apposta, ma aver « fatto un occhio nero » al compagno gli sembrò una figata, anche se si finse dispiaciuto. Forse per quello Giuseppe diceva che S.Lucia non esisteva, dovevano essere stati gli scompensi di quel frontale anni prima ; di sicuro doveva aver lasciato qualche problema cerebrale, oppure era semplicemente invidioso del fatto che a lui non portasse più niente da anni : brutta cosa l’invidia ! Beh, quel bambino ci credeva ciecamente. Per undici anni ormai, quella notte magica ed il suo rituale si ripeteva; da undici anni ormai aspettava quella sera con trepidazione. Si ricordava i pomeriggi passati con la sorella a preparare il te’ ed i biscottini per la Santa, che poverina è cieca e sarà sicuramente stanca a portar roba ai bambini. Ben disposti su di una tovaglia rossa a scacchi, dei bucaneve, delle caramelle e l’immancabile ciuffetto d’erba per l’asino che caricava i doni sulla schiena (poverino anche lui).

Ma quel mattino a scuola Giuseppe il cerebroleso sembrava più convinto del solito, e si meritava una lezione !  Così decise di dimostrargli una volta per tutte che non c’era nulla di nascosto la sera prima, bensì i doni arrivavano portati da una Santa cieca e dal suo mulo stanco, intorno a mezzanotte, perché prima passavano dai bimbi in centro, e solo qualche settimana dopo, per Natale, a quelli in campagna.

Fu così che dopo mangiato, prima di esser spedito a letto, si aggrappò al grambiule della Lella, sua madre, mentre questa lavava i piatti. Si appendeva capriccioso chiedendo : « Maaaa… ma e’ vero che Santa Lucia esiste? Giuseppe Barilla dice che i doni sono già nascosti qui in casa». La Lella tutta indaffarata si sradicò di dosso quei 40 chili di bimbo dondolante e lo spedì dal babbo, che ignaro sonnecchiava in lenta digestione coricato sul divano della sala. Saltellante si fiondò sul divano della sala, tra gli imprechi del padre svegliato di soprassalto. « Paaaaa, dove sono i regali di Santa Lucia? E’ vero che li porta col mulo stanotte?». Quel bimbo non stava facendo una domanda, diceva esattamente cosa voleva sentirsi dire. « Ma cosa vuoi che ci sia nascosto… » tagliò corto il babbo. « Allora se li cerco non li trovo… sicuro ?», replicò il bimbo con aria sospettosa. Il babbo ancora frastornato si ricompose per ritrovare la posizione ideale : « Ma sì cerca dai, basta che stai su di dosso », e richiuse gli occhi. Normalmente quella risposta lo avrebbe rassicurato, se c’era qualcosa da nascondere il babbo mica gli avrebbe detto di cercare, quindi era sicuro che non ci fosse nulla. Scese carponi con aria sicura e si mise ad aprire i cassettoni della sala. Dopo pochi minuti arrivò la Lella che gli intimò di rimettere le tovaglie e le lenzuola al loro posto. « Ti ho detto che non c’è nulla lì dentro, smettila di buttare tutto all’aria. ».

Ma il bimbo curioso continuava freneticamente le sue ricerche tra i cassetti della sala, sotto i divani, nella lavatrice, ed in ogni angolo della casa per dimostrare che ciò che un compagno di scuola aveva giurato era falso. La madre che, sospese le faccende di casa, continuava a guardarlo sorridente, decretò ancora, questa volta con aria più severa, che non c’era niente da trovare. Anche il padre, svegliato da quella caciara gli si era avvicinato per distoglierlo da quella ricerca affannosa, cercando invano di distrarlo chiamandolo a sé. Ma quel bimbo svuotava i cassetti avidamente con la sicurezza che il mattino dopo si sarebbe svegliato con i suoi regali stupendi e con la voglia di andare in classe ad urlare in faccia a Giuseppe quanto era coglione, e pure sfortunato, perché da lui la Santa non arrivava… ed abitava pure in città, quindi era proprio sfigato. Continuava a ripetersi in testa le cose che avrebbe detto l’indomani al compagno, mentre le mani svelte sventravano i contenuti della cassettiera, quand’ecco che da un cassetto della sala spuntò uno zainetto verde militare, proprio quello che aveva minuziosamente descritto nella sua letterina alla Santa. Dentro, ben avvolt,o un set dei Puffi col pozzo ed una casetta. Continuava a svuotare il cassetto incredulo, senza rendersi conto che le lacrime avevano preso a scendergli in faccia. Anche la sua cocciuta voglia di credere a quella magia inspiegabile da lì a qualche secondo avrebbe alzato bandiera bianca. Il momento scoccò nell’istante esatto che il suo sguardo si incrociò con quello della madre. La vide dispiaciuta che cercava di abbozzare ad un sorriso ; lei sapeva ciò che stava accadendo nel cuore di quel bambino, ma allo stesso tempo era consapevole che prima o poi sarebbe successo e si fingeva serena per non esasperare ancor di più quel momento. Il bimbo aveva avuto la risposta che non voleva e cercava disperatamente di ricacciare quei doni nel cassetto, voltando il capo rifiutandosi di guardare urlando, «no, no, non è vero… non è vero»; quello era il suo disperato modo di ricacciare indietro il tempo, per nascondere un impulso che gli saliva inarrestabile da dentro lo stomaco.

Lo stesso impulso lo avrebbe provato altre volte nella sua vita, quella sensazione in cui ci si sente infrangersi lentamente, sgretolarsi inesorabilmente, sconfitti da una verità inaccettabile. Quei cassetti custodivano la sua ingenuità, la sua disperata voglia di magia, il dono fanciullesco di credere nell’illusione testarda che una notte magica potesse rivelarsi ancora ai suoi occhi, credere e per questo poter vedere ciò che gli adulti avevano perso. Non si rendeva ben conto di quanto stesse succedendo nel fondo del suo stomaco, ma sentiva il vuoto salire inarrestabile. Quella sua stessa ingenuità, protetta e riscaldata sino ad allora dal sorriso convinto di sua madre, dalla compostezza del padre e dai mille racconti del nonno, era la sua vita sino a quella sera. Credeva che con la magia si potesse fermare il tempo e vivere i momenti felici più a lungo. Ci aveva creduto ciecamente, aveva difeso quell’idea imperturbabile di fronte agli sbeffeggiamenti dispettosi dei compagni ; ed ora si sentiva solo e tradito. Loro, la Lella ed Adriano (nella foto), glielo avevano fatto credere, lo avevano ingannato ed ora lo tradivano mostrandogli in fondo ad un cassetto quanto tutto fosse finzione, messinscena per piccoli sciocchi. Chiudere gli occhi strizzati di pianto, ricacciare quei regali ora indesiderati, finti, ricacciare quelle bugie nel loro buco era l’unica cosa potesse fare.

La madre lo aiutò a richiudere quei cassetti maledetti e se lo prese in petto stringendolo forte. Forse per l’ultima volta la Lella strinse forte al petto il suo bambino che disperato, scuotendo la testa e singhiozzando alitava fuori ciò che restava della sua fanciullezza. La mattina seguente si sarebbe svegliato serio, senza il solito sorriso e la stessa voglia di giocare; il guscio s’era frantumato e la vita coi suoi problemi, tradimenti e paure erano pronte ad accoglierlo, e lui non era pronto.

Così nacque Braccino, come sempre accade da un urlo disperato ed un dolore profondo: nudo e brutto, con gli occhi chiusi al freddo della vita».

Season 2 Episode 1 – Siamo pagine di un libro

«  Cammino lento come qualcuno che viene da lontano e non si aspetta di arrivare » Borges

Noi viviamo almeno due volte, siamo pagine di un libro. Siamo nella mano di chi scrive come negli occhi di chi legge.

Siamo i volti e le voci diverse dei nostri animi cangianti e siamo negli sguardi diffidenti di chi ci guarda; avvolti nelle nostre incomprensibili luci ed impenetrabili ombre come nelle loro. Siamo, maschere ed armature costruite frammento dopo frammento in momenti di vita ormai dimenticati. Siamo incomprensibili voci che chiedono solo di essere ascoltate, per vivere e per capire.

Altro non siamo che storie, impacchettate di personaggi, sensazioni, paesaggi, come nelle pagine di un libro.

Non esiste felicità e non esistono fallimenti, non fidatevi di chi vi dice il contrario, (vogliono solo vendervi qualcosa)… esistono solo storie di sorrisi o di lacrime, momenti di un libro di cui sappiamo solo l’inizio e di cui abbiamo la certezza di una fine : « Sure of my life and my death » diceva ancora Borges. Nel mezzo ci sono storie circondate da miliardi di altre storie da raccontare o da ascoltare; negli occhi di mia madre, nel sorriso di un bambino o nelle sue lacrime, nello scodinzolare riconoscente del mio cane come nel lento e ricurvo passeggio di un vecchio.

Camminiamo una vita in un campo fiorito di storie, sfiorandole appena, calpestandone alcune, cogliendone altre per poi lasciarle. A volte ci soffermiamo su qualcuno di quei fiori, forse il colore od il profumo ci imprigionano, prodigi della chimica o più semplicemente ci abbandoniamo dove ci spinge il vento. Passiamo giorni, mesi, anni accanto a quel fiore, proteggendolo, nutrendolo come un sogno che facciamo nostro, in attesa che sbocciando ci ripaghi della nostra decantata pazienza, dimenticandoci che quel fiore era lì prima del nostro arrivo e non ci appartiene.

Nulla ci appartiene esclusivamente e nulla resta immobile, immune allo scorrere del tempo. L’unico sacrosanto diritto che abbiamo è di viverle quanto possibile  per poi raccontarle quelle storie. Raccontarle è donar loro nuova vita, l’unico modo per non lasciarle mai veramente. Ma le storie non sono ricordi; no, loro hanno una vita propria.

Da qualche parte lessi che quando i ricordi superano la soglia della memoria diventano storia; il contesto è chiaramente diverso ma mi ha fatto persare che i nostri ricordi e le nostre storie non dovrebbero mai essere confusi.

I ricordi sono scaglie inanimate ed intimi fragmenti di memoria che appartengono al passato, sono scorci di vita scollegati dal presente ma ingredienti fondamentali di una storia che esistite solo se raccontata, non importa come ne da chi… i ricordi vivono una volta sola, osservali, mettili insieme, dagli una forma secondo ciò che hai imparato sino ad oggi e raccontali, diventeranno la tua storia, pulsante di vita propria, dallo scorrere costante di sei litri di sangue sospinto da una pompa spugnosa e molliccia chiamato cuore; se ti fermi in silenzio e chiudi gli occhi un attimo la puoi sentire pulsare di vita. Racconta la stessa storia tra un anno e vedrai che è diversa, perché sarà diversa l’alchimia che la anima.

Coi ricordi non accade, loro vivono una volta sola, intimamente riposti in qualche meandro del nostro cuore.

Noi camminiamo in un campo fiorito, ci imbeviamo del polline di storie diverse, a nostra volta riversandone più o meno consciamente in loro, come fossimo al contempo fiori ed insetti vibranti in una incontrollabile impollinazione perenne. Anche restando fermi ad occhi chiusi è il vento del destino a rendere quel moto costante ed inevitabile. E’ così che ogni fiore vive, cambia, cresce, ferisce con le sue spine od inebria col suo aroma per poi morire.

Ed è raccontandole quelle storie che si può veramente capire, oltre che far capire, l’origine di quei colori, di quelle spine, di steli ricurvi piegati dal vento. Ma per raccontare occorre prima osservare e per capire bisogna ascoltare senza giudizio e prendersi il tempo necessario. Avete mai provato a raccontare una cosa a qualcuno sta correndo in latteria o dal tabaccaio prima che chiuda ? Vi sentirete come quei poveracci che raccolgono firme sotto freddi portici di citta’ o vendono sconosciute storie africane ai passanti… non si condivide e non si impara niente, si dà solo fastidio.

Io credo che l’impazienza di chi racconta ed il giudizio affrettato di chi ascolta sono i nemici giurati di ogni storia. I bambini sono l’esempio, a naso in su ed occhi spalancati credono ancora che tutto sia possibile perché non hanno ancora imparato a giudicare nel mezzo del racconto; aspettano la fine della storia perché credono ancora che una sorpresa od un colpo di scena possa cambiare tutto.

Ogni storia vive almeno due volte, nell’animo di chi la racconta quanto in quello di chi l’ascolta ma nessuna storia ci appartiene esclusivamente, nemmeno la nostra.

Non ci sono regole nè logiche nè eccezioni nei campi fioriti in cui camminiamo e solo un idiota od uno psicopatico crederebbe che uno di quei fiori gli appartenga.

Non importa quanto vicine e coinvolgenti sentiamo le storie altrui, non sono le nostre e quotidianamente quei fiori ricevono polline e nutrimento da ogni dove, portati da una brezza sorridente ed irridente chiamata destino, che lo vogliamo o meno. Pararsi di fronte all’inevitabile per paura di perdere ciò che abbiamo trovato, toglie luce, calore ed inonda di fredde desolanti ombre chi cerchiamo egoisticamente di proteggere, e non paga mai, MAI !

Con la consapevolezza di questo mi sono messo in viaggio, mettendo ben allineati davanti i valori e giudizi del mio passato, mettendoli in dubbio e confrontandomici. Armato solo dei miei ricordi, di occhi ben aperti e la volontà di chiedere, ascoltare per poi raccontare, ma soprattutto con la voglia fanciullesca di credere che tutto possa veramente accadere finché la storia non finisce. Infatti non ho idea del finale di queste pagine… non ancora.

Un cammino lento di qualcuno che viene da lontano e non si aspetta di arrivare… e questa e’ la storia che ti vorrei raccontare…